Dipendenti da cosa?

Michele Grizzi

http://www.huffingtonpost.it/johann-hari/la-piu-probabile-causa-dipendenza_b_6537964.html

Qualche mese fa mi sono imbattuto in questo articolo su internet, risalente all’inizio del 2015. L’ho trovato molto interessante e mi ha stimolato alcune riflessioni sui temi dell’adattamento e del benessere psicologico.
In estrema sintesi, l’autore dell’articolo, il giornalista Johann Hari, propone una visione alternativa del problema delle dipendenze, ridimensionando l’importanza della dipendenza di tipo fisico creata dalle sostanze in sé. In effetti, allargando il discorso a tutte le “nuove” dipendenze (internet, social network, videogiochi, pornografia, gioco d’azzardo e scommesse, dipendenze affettive, da sport e attività fisica, da lavoro…) è facile constatare come nella maggior parte dei casi non siano direttamente dovute a sostanze o a effetti chimici. Il meccanismo che porta un individuo a sviluppare e mantenere un legame di dipendenza appare invece collegato ad una dinamica di tipo psicologico. L’autore sostiene in particolare che l’instaurarsi di una dipendenza sia favorito da vissuti di sofferenza, di solitudine, di assenza di contatto umano e di scopo. Pertanto, anche gli interventi riabilitativi dovrebbero essere rivolti a contrastare tali problematiche individuali e sociali, piuttosto che utilizzare logiche di segregazione, di colpevolizzazione e di contrasto alla diffusione delle sostanze stesse.

Spostando il discorso su un campo più psicologico e psicoterapeutico, è comune inquadrare un problema di dipendenza di una persona all’interno di un quadro più generale di personalità di tipo dipendente. Ciò significa, in parole più semplici, che alcune persone hanno sviluppato nel corso della loro vita una struttura di personalità incline ad avere bisogno di “oggetti” (cose, persone, attività…) esterni per sentirsi sicuri. Il legame con questi oggetti, che la persona si illude di avere sotto controllo (decido io come e quando “farne uso”) garantisce apparente benessere. In realtà, subentra poi la “trappola” della dipendenza, per cui l’oggetto diventa indispensabile, sfuggendo di fatto al controllo dell’individuo.

Senza addentrarsi in discorsi troppo tecnici, c’è un concetto che mi interessa sottolineare e che l’articolo di Johann Hari mi ha ricordato. E’ quello che le diverse forme di dipendenza costituiscono tentativi di “auto-terapia”, più o meno disfunzionali, che una persona mette in atto per difendersi da sue paure. Uso il termine paura in senso ampio, per intendere affetti ed emozioni negative (disagio, colpa, depressione ed ansia) provati dall’individuo quando, nel confrontarsi con la realtà, incontra minacce o pericoli che si sente inadeguato ad affrontare. Il punto cruciale è quindi questo: il vissuto di paura (e quindi la necessità di difendersi, nel modo migliore che la persona riesce a trovare) non sono necessariamente collegati ad un qualcosa di “oggettivamente” pericoloso. La radice è piuttosto la propria percezione di essere fragile o non attrezzato per il mondo, e quindi la sensazione che le richieste della vita ad un certo punto diventino “troppo”. Tra i diversi tentativi che una persona può fare per trovare un adattamento, quindi, ci può essere quello di cercare rifugio in una sostanza o un’attività che garantisca un’illusione di benessere e di controllo.

Ricollegandosi al discorso di Johann Hari, possiamo quindi dire che lo sviluppo di una dipendenza nasce come risposta ad una condizione di sofferenza interiore e dall’incapacità di vedere altre soluzioni per affrontarla. Soprattutto nelle condizioni meno gravi e più diffuse, la chiave per uscire dal “vicolo cieco” consiste quindi nel riuscire a vedere risorse e possibilità sia interne che esterne all’individuo. Ciò permetterà di sperimentare e perseguire nuove risposte e nuovi tentativi di affrontare le proprie paure, per raggiungere delle forme di adattamento più flessibili e meno disfunzionali. Un percorso psicoterapeutico può essere d’aiuto per una persona che necessita di un accompagnamento per compiere questo “passo evolutivo” verso un migliore adattamento. Seguendo quest’ottica, possiamo capire anche perché siano efficaci gli interventi di inclusione sociale e lavorativa indicati dall’autore. Infatti, possono fornire legami personali e affettivi “sani” che rispondono al bisogno di trovare supporti e sicurezze esterne. Inoltre, permettono alla persona di sperimentarsi in nuovi ambiti e di mettere in campo risorse personali fino ad allora poco riconosciute.

Vi lascio con un tocco più leggero, una canzone di Daniele Silvestri che sembra fatta apposta per accompagnare queste riflessioni:

Daniele Silvestri - Dipendenza

Bibliografia
Chasing the Scream: The First and Last Days of the War on Drugs, Johann Hari, Bloomsbury Publishing PLC, 2015.
La specificità dei bisogni come strumento di valutazione diagnostica, Maria Clotilde Gislon, Dialogos Edizioni, 2009.

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