Bullismo: il ruolo di genitori, figli e scuola

Vera Longhena

Si parla molto di bullismo come fenomeno purtroppo in crescita negli ultimi anni, sia tra i giovanissimi che tra gli adolescenti. Ma cos’è veramente? Quali sono le caratteristiche che posso delineare un fenomeno di bullismo? In ambito psicologico, si tratta di un comportamento sociale che prevede tre aspetti distintivi:

  • asimmetria nella relazione
  • intenzionalità del prevaricatore
  • persistenza nel tempo

Può essere sia diretto, tramite violenza agita, minacce, aggressioni verbali, mobbing (dall’inglese to mob: assalire, molestare); oppure indiretto, per mezzo di pettegolezzi, calunnie ed isolamento nelle relazioni.

Sembra palese si tratti di una situazione in cui una vittima subisce un comportamento di vessazione da parte di un bullo, della serie: è una di quelle contingenze in cui appare evidente e semplice attribuire torti tutti da un polo e ragioni tutte dall’altro. Eppure, lavorando a stretto contatto con i ragazzi e le loro famiglie, mi sembra che non sia così semplicistico e nemmeno così semplice. Mi è capitato più di una volta di sentire commenti tipo: <<la colpa è della vittima che non sa difendersi!>>, che d’acchito sembrano una provocazione. Commenti di questo tipo fanno storcere il naso alla nostra sensibilità, e certo suonano come una distorsione al senso comune; tuttavia ci danno la possibilità di soffermarci a riflettere sulla complessità del fenomeno. Facciamolo insieme.

Questo schema ci fornisce una panoramica dell’ampio raggio a cui facciamo riferimento quando parliamo di bullismo. La sezione dello schema su cui intendo soffermarmi è quella dei ruoli: troppo facile credere che la relazione di bullismo sia univoca e duale, tra bullo e vittima; nella realtà sono coinvolti molti più personaggi (e non dimentichiamoci che sono sempre tutte persone, ognuna con la propria complessità): un ruolo di rilievo è rivestito dai complici del bullo e dagli spettatori, siano essi indifferenti, intimiditi o compiaciuti. Questo, a mio avviso, è fondamentale, perché rende la relazione bullo-vittima una dinamica gruppale e non duale. Perché è assai più consueto che il bullismo venga agito in gruppo? Perché molto spesso i bulli sono emulati e rispettati? Come agiscono i fenomeni di diminuzione dell’inibizione sociale e distribuzione della responsabilità all’interno del gruppo?

Vi racconto quanto accaduto nel 1971 durante un esperimento psicologico, diretto dal team di studio del professor Zimbardo.  Nei sotterranei dell’Università di Stanford vennero allestiti degli ambienti che simulavano un carcere, e si cercarono volontari a cui far assumere il ruolo di guardia o prigioniero. I partecipanti erano 24 studenti volontari, maschi, di ceto medio, fra i più equilibrati, maturi e meno attratti da comportamenti devianti; a loro fu assegnato casualmente uno dei due ruoli. Così divisi tra detenuti e carcerieri, iniziarono a vivere la vita di una prigione vera e propria. I risultati furono drammatici. Dopo i primi due giorni si verificarono i primi episodi di violenza: le guardie iniziarono a intimidire i carcerati e ad umiliarli, cercando in tutti i modi di spezzare il legame di solidarietà che si era creato fra di essi. Al quinto giorno, i prigionieri cominciarono a manifestare sintomi di seri disturbi emotivi, mentre, per contro, le guardie incrementavano i comportamenti vessatori e sadici. A questo punto i ricercatori furono costretti ad interrompere anticipatamente l’esperimento, per evitare conseguenze ancora più gravi e drastiche. Ora che avete finito di leggere cosa accadde, ricordatevi chi erano i partecipanti: studenti, non violenti, volontari, consapevoli di stare partecipando a un esperimento con compagni; si trattava cioè di studenti comuni, di psicologia, giovani adulti, come potrebbero essere i vostri figli, come potremmo essere stati noi a nostro tempo.

Cosa può c’entrare la prigione simulata di Stanford con il bullismo? Ci dice che il gruppo cambia la prospettiva delle persone. Veramente pochi soggetti se la sentirebbero di diventare bulli se fossero soli e non appoggiati, o peggio, fomentati da un entourage, di cui sono il leader. Agire in gruppo avvia un processo che in psicologia si definisce “deindividuazione“: riduce la responsabilità e la consapevolezza di sé, paura, vergogna e senso di colpa si affievoliscono e passano in secondo piano, mettendo così in scacco l’autocontrollo.

Molto probabilmente per la vittima di comportamenti di sopruso ci saranno delle conseguenze sia a breve che a lungo termine. Proviamo ad elencarne alcune:

-area psicologica: scarsa autostima; sintomi psicosomatici, soprattutto la mattina prima di andare a scuola; disturbi del sonno; attacchi d’ansia; comportamenti autolesivi.

-area scolastica: problemi di concentrazione e di apprendimento; calo nel rendimento scolastico; disinvestimento nelle attività scolastiche; fino ad arrivare a un abbandono scolastico, soprattutto se gli atti di bullismo accadevano entro quel contesto.

-area socio-affettiva: ritiro; solitudine; relazioni povere.

Ci siamo mai chiesti se ci siano conseguenze intrapersonali anche per il bullo, che esulano da quelle punitive e sanzionatorie. La risposta è si, e potrebbe farci riflettere:

-basso rendimento scolastico

-disturbi della condotta

-disadattamento in situazioni che richiedono il rispetto delle regole

-difficoltà relazionali

Psicologi specializzati sull’argomento ci rivelano che tutte le caratteristiche, sia del bullo che della vittima, possono permanere nel tempo, stabili, anche in assenza della situazione originaria.

E ora che abbiamo analizzato cause e conseguenze, dedichiamoci a pensare a come prevenire o risolvere situazioni di bullismo, che diversamente rischiano di incistarsi e provocare molto dolore.

A casa che fare? Ascoltare i propri figli, i loro sentimenti, le loro paure, è il primo passo per aiutarli ad esprimere e confidare il loro disagio, ma anche le loro idee e le loro soluzioni. E’ importante che i genitori non cerchino di gestire tutto loro, togliendo al figlio la possibilità di sentirsi attivo e responsabile in prima persona; ciò lederebbe ancora di più alla loro già ferita autostima e minerebbe la fiducia reciproca, che va invece il più possibile consolidata. Allo stesso modo è essenziale che la famiglia non si chiuda e cerchi il confronto con gli altri referenti, siano essi insegnanti, psicologi o responsabili in contesti ludici e ricreativi.

A scuola che fare? Sembra banale, ma non è affatto scontato, il primo passo è affrontare il problema: sollevare dibattiti, discussioni e momenti di confronto in classe. Collaborare con i genitori e gli stessi alunni per rendere visibili le situazioni di prepotenza, per ricercare soluzioni ai conflitti sociali sottostanti. Infine, ma non per importanza, promuovere una educazione socio-affettiva, così da stimolare nei ragazzi lo sviluppo di un’intelligenza emotiva, atta a responsabilizzarli in merito alle proprie azioni.

In ogni storia di bullismo non c’è mai un vincitore e nemmeno un vinto: c’è solo un soggetto debole che se la prende con uno ancora più debole e approfitta dell’incompetenza e dell’analfabetismo emotivo che domina l’ambiente in cui entrambi vivono e si muovono per affermare un potere fittizio, fatto di degrado, umiliazione, solitudine e omertà.” (Alberto Pellai)

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